Meditate, gente, meditate

20 Gennaio 2011 | Parliamo di yoga

Questo post nasce dalla necessità di rispondere ad alcune domande che mi sono posto in anni di approfondimento sulle metodiche dello Yoga e sulla loro relazione con l’intero corpo.

I miei interrogativi derivano in particolare dal desiderio di comprendere perché lavorare sul proprio corpo attraverso gli Asana porti a un netto miglioramento della condizione fisica e mentale. A livello di sensazione, il beneficio è evidente, ma non è sufficiente per mettere a fuoco le ragioni scientifiche. Per questo mi sono dedicato allo studio e alla riscoperta di nozioni antiche, integrandole con le moderne possibilità di fornire risposte scientifiche alla pratica dello Yoga.

Ascoltando le persone che praticano con me, leggendo articoli e relazioni mediche, oltre che studi scientifici, ho costruito una risposta sia emotiva sia scientifica. Si tratta di una spiegazione ampia e articolata, che qui non riporto nei dettagli, ma che emerge chiaramente analizzando le pubblicazioni sul tema.

Sentivo però il bisogno di un ulteriore passo avanti.

Poi, per puro caso, mi sono imbattuto in un post di un amico che faceva riferimento al Simposio di Platone. Quella lettura, unita alle conoscenze che avevo già accumulato, ha acceso in me un’intuizione: collegando i vari elementi, ho elaborato una risposta più completa ai miei “perché”.

In questi anni di studio osteopatico e posturale, è emersa in modo deciso la relazione tra il cervello e il suo potenziale effetto sul nostro corpo. La capacità del sistema nervoso centrale di modificare le condizioni fisiche attraverso un semplice impulso cerebrale continua a sorprendermi positivamente: il corpo può cambiare forma e funzione in modo strategico, autonomamente, quando necessario.

Vi starete chiedendo che relazione ci sia fra il titolo di questo post – preso in prestito da un celebre slogan di Renzo Arbore – e quanto detto finora. Ebbene, la risposta è che il significato di quel titolo corrisponde alla mia conclusione: LA MEDITAZIONE.

Potremmo esplorare molti modi di pensare, filosofie e religioni legate a questa parola, ma non è questa la mia intenzione. Il concetto di meditazione a cui mi riferisco è la capacità, innata in tutti noi, di mettere in comunicazione i due emisferi cerebrali: la parte emotiva (dominata prevalentemente dall’emisfero destro) e la parte razionale (legata maggiormente all’emisfero sinistro).

Sappiamo che il cervello è un organo complesso, composto da oltre 100 miliardi di neuroni, ciascuno dei quali può entrare in contatto con fino a 100.000 altre cellule attraverso segnali elettrochimici chiamati sinapsi. Da un punto di vista funzionale, il cervello umano è sovrapposto in tre strati (Archicortex, Mesocortex, Neocortex), ciascuno con funzioni specifiche, emerse nel corso dell’evoluzione dei vertebrati.

Archicortex (simile al cervello dei rettili): specializzato nel controllo di funzioni vitali come respirazione, battito cardiaco e sopravvivenza.
Mesocortex (cervello arcaico): regola il comportamento emotivo-motivazionale e i meccanismi di rinforzo psicologico, base dell’apprendimento.
Neocortex (corteccia cerebrale): parte più recente e responsabile dell’integrazione e coordinazione di tutte le funzioni nervose; sede delle funzioni superiori come l’intelligenza razionale, la memoria e il linguaggio.

La corteccia cerebrale, tipica dell’essere umano, è suddivisa in due parti simmetriche: emisfero destro ed emisfero sinistro, separati ma uniti dal corpo calloso, un fascio di fibre che permette la condivisione delle informazioni sensoriali. Numerosi studi di neuroscienze confermano la specializzazione emisferica:

– L’emisfero destro elabora i dati in modo rapido, spaziale, non verbale, sintetico e globale. È ritenuto essenziale nell’intuizione, nella creatività e nella percezione dello spazio.
– L’emisfero sinistro analizza dettagli, elabora funzioni verbali, di calcolo e di ragionamento lineare e simbolico, governando anche la scansione del tempo.

Queste differenze, chiaramente, vanno integrate: quando osserviamo un oggetto, l’emisfero sinistro ci aiuta a riconoscere “che cos’è”, mentre il destro ci fa percepire il contesto in cui si trova. Nella cultura occidentale, l’organizzazione educativa e lavorativa tende spesso a favorire l’impiego dell’emisfero sinistro, trascurando quello destro. Gli esercizi scolastici, ad esempio, sono spesso incentrati su abilità di calcolo e ragionamento “chiuso”, attivando poco immaginazione e intuizione.

Al contrario, l’emisfero destro svolge un ruolo determinante nella creatività: consente di “rompere” gli schemi di pensiero consolidati e di esplorare nuove soluzioni. È bene ricordare che la creatività non è solo di competenza dell’emisfero destro: l’atto creativo è un processo complesso che richiede la collaborazione equilibrata di entrambi gli emisferi. All’inizio, il cervello tenta infatti di seguire percorsi conosciuti, ma grazie a uno sforzo di immaginazione, comincia a stabilire sinapsi “divergenti” e a creare soluzioni inedite.

Ma passiamo ora al post che ha ispirato questa mia riflessione. Si tratta di un estratto dal Simposio di Platone che descrive come l’umanità fosse originariamente unita in esseri “doppi”, poi separati da Zeus. Ognuno, da allora, cerca la propria metà perduta.

A parlare ora, è Aristofane che enuncia uno dei più grandi miti della storia umana, quello dell’Androgino. Ma innanzitutto bisogna che conosciate la natura della specie umana e quali prove essa ha dovuto attraversare. Nei tempi andati, infatti, la nostra natura non era quella che è oggi, ma molto differente. Allora c’erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la femmina, e un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli altri. Il nome si è conservato sino a noi, ma il genere, quello è scomparso. Era l’ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva caratteristiche sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono più persone di questo genere. Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell’unica testa. Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e il resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come noi, nel senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po’ come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c’erano tre generi è questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d’entrambi dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra. La loro forma e il loro modo di muoversi erano circolari, proprio perché somigliavano ai loro genitori. Per questo finivano con l’essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era immenso. Così attaccarono gli dèi, tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli dèi. Allora Zeus e gli altri dèi si domandarono quale decisione intraprendere. Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un’idea. “lo credo – disse – che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso – disse – io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto. Apollo voltava allora il viso e, raccogliendo d’ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non lasciando che un’apertura – quella che adesso chiamiamo ombelico. Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del cuoio. Lasciava però qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e dell’ombelico, come ricordo della punizione subìta. Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all’altra. Si abbracciavano, si stringevano l’un l’altra, desiderando null’altro che di formare un solo essere. E così morivano di fame e di apatia, perché ciascuna parte non voleva far nulla senza l’altra. E quando una delle due metà moriva, e l’altra sopravviveva, quest’ultima ne cercava un’altra e le si stringeva addosso…

Che cosa significano per me queste righe? Semplicemente che le due metà sono costantemente alla ricerca l’una dell’altra. Questa ricerca, innata e spesso inconsapevole, può essere stimolata e attivata attraverso la meditazione.

Credo che la meditazione agevoli la continua interazione tra la nostra parte emotiva e quella razionale, e che questa comunicazione profonda ci aiuti a conoscerci meglio, a fare scelte più coerenti con il nostro vero modo di essere, assecondando le nostre inclinazioni più autentiche.

La pratica degli Asana nello Yoga induce naturalmente uno stato meditativo e permette a ciascuno di noi di tenere vive e in relazione le due parti del cervello, favorendo un contatto più intimo con se stessi e aiutando a raggiungere una piena consapevolezza, vale a dire “essere” al meglio delle nostre potenzialità.

 Riferimenti scientifici sulla meditazione

Lazar, S. W., Kerr, C. E., Wasserman, R. H., et al. (2005). Meditation experience is      associated with increased cortical thickness. NeuroReport, 16(17).
Tang, Y.-Y., Hölzel, B. K., & Posner, M. I. (2015). The neuroscience of mindfulness meditation. Nature Reviews Neuroscience, 16(4), 213–225.
Kabat-Zinn, J. (2003). Mindfulness-based interventions in context: Past, present, and future. Clinical Psychology: Science and Practice, 10(2), 144–156.

 

6 Commenti

  1. Elisa

    Molto bello questo articolo, mi ha preso..
    Mi ha dato alcuni spunti su cui riflettere..o meglio…MEDITARE..
    Appena mi ritaglierò un attimo di calma…lo farò..
    Grazie Maestro

  2. gaetano

    Grazie a te Elisa!

    Namaste

  3. paolo

    Penso che ognuno di noi (chi più chi meno) sia in grado di avvertire sulla propria pelle, data l’educazione ricevuta e la cultura in cui viviamo, la preponderanza del “lato sinistro” descritta da Gaetano in questo Post.
    Chi è un po’ curioso sa che in altre culture, in particolare quelle orientali, l’educazione al “sentire” viene considerata di fondamentale importanza. Molto più che da noi, che da questo punto di vista siamo mediamente (a comiciare da me) degli analfabeti.
    Noi occidentali abbiamo sempre investito molto sul conflitto tra ragione ed emozione (lato sinistro-lato destro), non cogliendone la mutua compenetrazione, che fra l’altro solo oggi gli psicologi stanno cominciando a studiare (ad es. il ruolo cognitivo delle emozioni). Questo ci ha deprivato di una facoltà essenziale al ben vivere: il “sentire” se stessi e gli altri anche a livello emotivo oltre che razionale.
    Noi tendiamo ad incasellare tutto all’interno di rigidi schemi mentali logico-razionali, quando la realtà (a cominciare dal nostro corpo-mente) è terribilmente fluida ed impalpabile (i Koan zen ci insegnano proprio questo: l’umiltà della ragione: http://it.wikipedia.org/wiki/Koan. La consapevolezza si raggiunge non solo “conoscendo” ma anche “sentendo” (con tutto il corpo).
    Io senz’altro confermo quello che Gaetano dice in conclusione del suo post: le Asana fanno bene perché tendono ad accendere quell’armonia tra le nostre parti normalmente scisse. Sentire ciò che si conosce – conoscere ciò che si sente.

  4. cecilia

    sense and sensibility, ragione e sentimento…non penso che tutto si riduca a questo; Hume sosteneva che la ragione è un mezzo per raggiungere ciò che desideriamo, anche questo è riduttivo nel contesto di un pensiero filosofico più ampio, però stabilisce un nesso : agisco consapevolmente rispondendo ad un desiderio, ad una spinta emozionale che nasce dentro di me.
    La chiave è dentro di noi, non all’esterno. La nostra metà agognata, quella cosa che ci spinge ad una ricerca esasperante dell’altro, nell’altro, al di fuori di noi si può concretizzare in una parola: aequus-libra , giusto peso, equilibrio…
    bastare a stessi e cercare di conoscersi è un ottimo inizio per rivolgere lo sguardo agli altri. che ciò sia semplice per noi, abituati a sottomettere la sensitività alla ragione e viceversa, è un altro discorso.

  5. paolo

    Giustissimo il richiamo di Cecilia all’equilibrio…
    Jung parlava della salute psichica come di un equilibrio (perennemente dinamico ed instabile) tra gli opposti che ci costituiscono, in particolare quello tra introversione ed estroversione… Entrambi gli estremi ci portano sulla strada della perdita di noi stessi.

  6. gaetano

    Grazie Paolo e Cecilia dei vostri interventi.

    Negli anni, nella mie esperienze, nei miei conflitti ha spesso vinto la parte razionale, ma ora molto meno, cerco di essere qui e ora e di pensare in modo pieno; pieno è un lemma che mi piace molto, identifica un tutto che non sappiamo alle volte cogliere e che per non possiiblità o volontà non conosciamo.

    Il potenziale che abbiamo è davvero alto che alle volte ci spaventa e la paura positiva diventa subito negativa non dandoci modo di poter cogliere al meglio la realtà del sentire.

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